Per questo patto arcano fra un pavimento di legno e una persona

“Sei già lì?”
“Mi riposo un po’”
“Potevi riposarti in camerino, o meglio a casa”.
“Appunto”.
A casa. Se non fosse così, per questo patto arcano fra un pavimento di legno e una persona, sarebbe un mestiere micidiale. I tempi dell’attesa, il dubbio che insidia la scelta che sembrava sicura, degli sprazzi di sicurezze, certe stanchezze disarmanti alternate a giornate veramente felici, fino a quel momento in quinta in cui non c’è più scampo. Mi lì che ti aspetta c’è lui, il palcoscenico, la tua casa. Vai e lavora, corre per te la sera. È risaputo che il corpo sconfitto nelle sue infinite fisime entra nel più imprevedibile benessere quando è in scena. Gli attori che saltano le recite per eventuali malori lo decidono in albergo; non vogliono essere disturbati per qualche ragione contrattuale. È pur vero che qualcuno c’è morto in scena, ma sono fatti storici. I posteri come sempre un po’ retorici dicono che è una bella morte. Se si considera lo strazio e la noia di quando non si lavora forse è vero. Non so se viviamo nella falsità di una scenografia o nella realtà unica dell’illusione, ma forse molti scambierebbero il loro destino con il nostro.
Guardateli, stanno provando una commedia, magari anche mediocre, ma in quel momento si ritengono a un crocevia storico.
“Quella battuta io la vedo così”.
“Ma cara, non hai capito, è la chiave del personaggio”.
“Ma per favore”.
“Parliamone”.
Beati loro; fuori ci sono altri problemi.
E io faccio parte di questo mondo illusorio.
Ma sono stata fedele al mio lavoro? Sostanzialmente sì. Perché la fedeltà non è una mia virtù. È una mia necessità.
Il motivo è molto semplice, è la sostanza di una scelta. Non sono mai stata scelta, né da un uomo, né da un amico, né da un mobile. C’è in genere la reciprocità, anzi sempre, ma la scelta è tua.
Il proprio lavoro è quel meraviglioso individuo (dai più odiato) che ci accompagna. È stato per me generoso, ma pretende. È giusto. Vedermi piegata in due a insaponare un uomo distratto gli dava certamente ai nervi.
È evidente che mi rappresento anche lui in fattezze umane, è la tendenza delle nostre limitate capacità d’astrazione. Anche Dio ha un volto e forse la barba.
Il lavoro pretende forse la fedeltà più difficile. Lo vedo sottolineare con un pallido sorriso certe mie fatiche che si aspettavano di più, ma poi esplode inaspettatamente in clamorosi tripudi che tranquillizzano la mia incertezza.
Lui è stato sempre esigente, ha minacciato di abbandonarmi per una modesta partecipazione a qualche film assolutamente di terza classe. Non ammette che il guadagno prenda il suo nome.
Invecchia tenendomi d’occhio. Io lo rassicuro, ti sarò sempre fedele. Sembra che mi dica: “Invecchiando si può perdere il controllo”.
Anche lui qualche volta dice delle sciocchezze, se si perde il cervello non si lavora più.
Su questo pensiero consolatorio mi addormento.

Franca Valeri – Bugiarda no, reticente

La maestra e l’allieva

“L’altra cosa che hai imparato è questa: un attore non è che un viaggiatore del tempo. Come tutti, forse, ma loro vengono sballottati su e gù da un autista misterioso, tu al contrario sai pilotare.

Ridi di gioia e hai di nuovo nove anni, stai giocando con Mozzo in giardino; piangi di solitudine e ti ritrovi nel tuo letto di quindicenne. La rabbia invece ha vent’anni: l’hai appena imparata e messa via, per quando ti servirà ancora. Sei la maestra e l’allieva della tua vita. Impari dalla te stessa del passato, insegni alla te stessa del futuro: le persone normali si smarriscono lì dentro, tu ti ci muovi danzando.

E visto che tutti ti regalavano qualcosa, perle di saggezza, baci pieni d’affetto, tua zia non ha voluto essere da meno e ti ha lasciato una mela per il viaggio. Nello scompartimento la strofini sulla manica del maglione, estrai il ripiano in metallo e la posi lì, per dopo.

Incroci il tuo riflesso nel finestrino buio. Alzi la mano destra e ti copri un lato della faccia, in modo da fissare la ragazzina nel suo unico occhio torvo. Tu non ti preoccupare, le dici. Ci penso io a te. Poi alzi la mano sinistra e scambi un mezzo sorriso con quella giovane attrice temeraria, che sta andando a costruirsi una carriera a centinaia di chilometri da qui.

Il gioco viene interrotto sul più bello, quando il cielo esce dalla stazione e un cielo lattiginoso invade il finestrino. Sbattendo gli occhi osservi scorrere i treni in sosta, gli edifici ferroviari, i palazzi di edilizia popolare tra Greco e viale Monza. Non ti eri mai accorta che, dalla Stazione Centrale, i binari puntano verso nord, e per andare a sud bisogna fare il giro di mezza Milano. Per te era solo l’attraversamento di una palude urbana, la faticosa rincorsa necessaria prima di prendere velocità in campo aperto. Adesso invece riconosci i luoghi. In ponte di via Padova, Lambrate, l’Ortica. Le torri di periferia logorate dal tempo, il giallo e il rosso sbiaditi verso un’uniforme tinta militare. I balconi incolonnati uno sull’altro, addobbati per la tua partenza, da cui ti dicono addii eroici scaldabagni e lavatrici, stendibiancheria sgangherati, piante d’appartamento rosicchiate dai parassiti, gabbie di criceti e canarini che ora corrono a vuoto e cinguettano nell’altro mondo, bambole zoppe o decapitate o rasate a zero, accantonate da bambine cresciute, armadietti stracolmi di federe nuziali e lenzuola ridotte a stracci, elettrodomestici che ai loro tempi avevano varcato la soglia di casa come prodigi della tecnologia, e ora sono soltanto un ingombro che nessuno sa dove buttare. Poi la vista ti si appanna o è il tuo fiato che fa condensa sul finestrino.

E solo quando te ne vai ti accorgi che le vuoi bene, a questa morsa nello stomaco che è la tua città d’inverno.

Sofia si veste sempre di nero, Paolo Cognetti

A cercar le stelle in fondo ai pozzi

Sono un poeta,

sono un attore,

ma la mattina mi sveglio,

mi vesto,

mi infilo le scarpe,

esco per strada e sono come tutti,

e nella strada passano passanti,

e io li guardo, e sorrido perché passano,

e anch’io passo e nessuno mi nota.

Ma poi,

nella solitudine della mia stanza,

apro le botole dell’anima,

guardo nel buio dei sotterranei,

ci sono topi, ruscelli di diamante,

bellezze, miasmi e rancori:

lo faccio per me,

lo faccio per voi,

perché ci vuole qualcuno che guardi,

e questi sono i poeti,

che cercano le stelle in fondo ai pozzi.

 

– I dialoghi mancati, Antonio Tabucchi